lunedì 19 novembre 2012

Sudafrica-India 1974: la finale di Davis che non ci fu


Avevano sognato di vedere il proprio nome sulla Coppa. Ma il giorno in cui il sogno è diventato realtà, nessuno ha festeggiato. Questa è la storia dell'unica finale di Davis che non si è giocata. È la storia dell'unico titolo del Sudafrica, che nel 1974 ha vinto grazie al boicottaggio dell'India. E del ruolo del Mahatma e di Indira Gandhi nella lotta contro l'apartheid.

“Avevo 20 anni nel 1974, quando ho avuto il mio primo contatto ufficiale con il Sudafrica” ha detto Vijay Amritraj nel discorso tenuto il 6 maggio 1988 davanti al comitato speciale contro l'apartheid del'ONU. “Venire in contatto diretto con quel Paese mi ha permesso di capire più da vicino le sue politiche, la sua gente, i rapporti con l'Occidente in ogni aspetto della vita e l'incredibile lotta dei non-bianchi per quello che nel resto del mondo è dato per scontato. Moralmente, quella di non giocare la finale è stata una decisione facile. Da sportivo, sono stato un po' deluso ma dentro sentivo che era meraviglioso aver in qualche modo supportato la lotta di un popolo che voleva semplicemente vivere come tutti gli altri”.

Suo fratello, Anand, non è d'accordo. “Abbiamo buttato la sola occasione che abbiamo mai avuto di vincere la Davis. E' stata una decisione sbagliata. E non ha cambiato niente”. Anand era il secondo miglior tennista nella seconda nazione più grande del mondo. Non era certo facile sapere di essere anche il secondo miglior giocatore della famiglia, dietro al fratello minore Vijay, di due anni più giovane.


Un po' di storia: l'India, lo sport e il movimento anti-apartheid
E' in Sudafrica che Gandhi organizza la prima satyagraha, la prima manifestazione di lotta nonviolenta. E' il 1906 e il Mahatma protesta per la nuova legge razzista che obbliga gli indiani residenti nel Transvaal a essere schedati.

Non può stupire, dunque, che l'India sia in prima fila nel richiedere il boicottaggio sportivo e l'esclusione dal Cio del Sudafrica a causa dell'apartheid, il regime diventato politica di stato nel 1948. Due anni prima il governo sudafricano ha approvato l'Asiatic Land Tenure and Indian Representation Act, una legge che costringe gli asiatici e gli indiani a comprare terre solo in aree ben delimitate e impedisce loro di avere una rappresentazione adeguata nel locale parlamento. Gli indiani lo chiamano il “Ghetto Act”.

Nascono una serie di organizzazioni sportive interamente bianche, che vengono riconosciute dalle varie federazioni internazionali. Nel 1955 un gruppo di atleti neri dà forma al Comitato per il Riconoscimento Internazionale e ottiene che il South Africa Table Tennis Board (SATTB) sia affiliata alla federazione di tennis tavolo al posto dell'omologa organizzazione sudafricana interamente bianca. Gli atleti del SATTB partecipano ai mondiali a Stoccolma nel 1957, poi il governo decide di negare loro i passaporti.
Nel 1958 nasce l'Associazione degli Sport Sudafricana (SASA), seguita nel 1963 dal Comitato Olimpico Sudafricano Non-Razzista (SAN-ROC). Dennis Brutus, segretario del SASA e poi presidente del SAN-ROC, si vede negare il passaporto per andare a Roma nel 1960 per appellarsi al CIO. Imprigionato, riesce a scappare in Mozambico nel 1963, ma le autorità portoghesi lo rispediscono in patria, dove rimane a lungo in carcere.

Il Sudafrica, già costretto a lasciare il Commonwealth e abbandonare la Imperial Cricket Conference e i Commonwealth Games nel 1961, è sempre più sotto pressione nel 1963. Abdul Minty, presidente onorario del movimento britannico anti-apartheid, nell'ottobre del 1963 si reca a Baden-Baden in rappresentanza del SAN-ROC per contattare le altre delegazioni al meeting del CIO. Le nazioni africane e asiatiche dichiarano di non poter partecipare alle Olimpiadi se al Sudafrica sarà concesso di presentare squadre selezionate con criteri razzisti in flagrante violazione dei principi olimpici. Il CIO, di conseguenza, adotta una proposta presentata dall'India che recita:
“Il Comitato Olimpico Nazionale del Sudafrica deve dichiarare formalmente che comprende e che si sottomette allo spirito della Carta Olimpica... Deve anche ottenere, entro il 31 dicembre 1963, la modifica della sua politica di discriminazione razziale nelle competizioni sportive sul suo territorio, pena l'esclusione dai Giochi Olimpici”. Il Sudafrica sarà escluso da Tokyo 1964.

Nel 1965 il governo sudafricano emette una Proclamazione sotto l'ombrello del Group Areas Act che vieta ogni performance, ogni evento sportivo misto se non esplicitamente permesso. Allo stesso tempo, mentre l'India e l'Unione Sovietica propongono alle federazioni internazionali di escludere il Sudafrica da ogni competizione, il governo di Pretoria inizia a fare qualche concessione per ottenere la riammissione nel comitato olimpico. Ad aprile 1967 offre di mandare squadre miste, ma selezionate con trial separati e promette di non influenzare la composizione delle squadre invitate dall'estero: quell'anno la Nuova Zelanda di rugby aveva cancellato un tour perché il Sudafrica non avrebbe permesso che ci fossero Maori tra gli All Blacks.

Nel 1968 l'Assemblea Generale dell'ONU richiede a tutti gli Stati e le organizzazioni “di sospendere gli scambi culturali, educativi, sportivi e di altro tipo con il regime razzista e con le organizzazioni o le istituzioni che in Sudafrica praticano l'apartheid”.

Il 1970 è un anno chiave. In Inghilterra, l'associazione di cricket viene pesantemente criticata per l'intenzione di invitare la nazionale, tutta bianca, del Sudafrica. La pressione del movimento “Stop the Seventy Tour” cresce. Cinquanta nazioni, tra cui l'India, minacciano di non partecipare ai Giochi del Commonwealth in programma a Edinburgo nel 1970 se il tour venisse confermato. L'intervento del segretario di stato, James Callaghan, fa il resto. E il 22 maggio il Cricket Council annuncia che c'è stata “una richiesta formale del Governo di Sua Maestà di ritirare l'invito alla squadra sudafricana”. Il Sudafrica viene formalmente espulso dal CIO.

L'anno successivo, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta la risoluzione 2775 D invocando il rispetto del principio di non-discriminazione a tutte le organizzazioni sportive. Nel 1973 nasce il SACOS, il Consiglio Sudafricano dello Sport, che unisce tutte le federazioni anti-apartheid. Tra gli animatori del SACOS gli indiani hanno un ruolo primario.

Il 1974: Arthur Ashe in Sudafrica
Il tennis vive molto da vicino la questione. Il primo presidente dell'ATP, nata nel 1972, è il numero 1 del Sudafrica, Cliff Drysdale, che si oppone pubblicamente all'apartheid e successivamente rinuncerà alla nazionalità sudafricana. È lui che nel 1968 mette in guardia Arthur Ashe sulle difficoltà di ottenere un visto per giocare la prima edizione degli Open del Sudafrica.

Ashe, anche lui tra i fondatori dell'ATP, chiede il visto ogni anno ma lo ottiene la prima volta solo nel 1973: arriverà in finale perdendo da Jimmy Connors. Ma è nel 1974 che ha un incontro illuminante. Ashe, cresciuto in Virginia dove sugli autobus c'era una linea bianca che distingueva i posti dei bianchi da quelli dei neri, relegati nelle file in fondo, ha sempre chiesto, e ottenuto, che durante le sue partite non ci fossero discriminazioni o settori distinti sugli spalti. Ed è stato accontentato.

Il torneo si gioca a Ellis Park, la cattedrale del rugby, che è lo sport nazionale ma anche il simbolo dell'apartheid. È lo sport portato dai bianchi e giocato dai bianchi. I neri sono esclusi dalla nazionale, tanto che c'è sempre un gruppo di tifosi che supporta gli avversari degli Springboks. Ma è anche lo sport che consente a Nelson Mandela di aprire un ponte verso il futuro. Un ponte che parte da lontano, negli anni della prigionia a Robben Island. Grazie al rugby, Mandela comprende meglio la mentalità dei bianchi e mette le basi per la nascita della Rainbow Nation. Quel ponte verso il futuro diventa realtà nel 1995, quando Mandela, diventato il primo presidente post-apartheid, va a stringere la mano del capitano degli Springboks Francois Pienaar prima della finale del Campionato del Mondo contro la Nuova Zelanda, proprio a Ellis Park. Ha il cappellino e la maglia della nazionale, quella maglia per anni tanto odiata dai neri che da quel giorno diventa un simbolo nuovo, verde come la speranza di un avvenire migliore.

Oltre vent'anni prima, però, quando Arthur Ashe era impegnato nel torneo del 1974, a Ellis Park c'erano ancora i bagni separati. E c'era un ragazzino di 14 anni che lo seguiva con lo sguardo sognante: era lì quando Ashe arrivava, era ancora lì quando se ne andava. “Perché mi stai seguendo?” gli chiese. “Perché sei il primo nero davvero libero che abbia mai visto” rispose. Quel ragazzo è Mark Mathabane: insieme al suo amico Stan Smith, Ashe lo aiuterà ad andare negli Usa per studiare, e Mark metterà a frutto il suo talento letterario nell'acclamato libro autobiografico “Kaffir Boy”. “Come poteva un nero giocare un tennis così eccellente” scrive, “muoversi per il campo con così tanta fiducia in se stesso, battere un bianco ed essere osannato dai bianchi?”.

Il cammino verso la finale di Davis
Il primo vero test per la nazionale indiana nella coppa Davis del 1974 arriva nella finale della Zona Orientale. Di fronte, al South Club di Calcutta stracolmo di tifosi, ci sono i campioni in carica dell'Australia, che nell'ultima finale hanno battuto gli Usa: le due nazioni si spartiscono il trofeo dal 1936. Il leggendario capitano dell'India, Ramanathan Krishnan, sceglie come secondo singolarista Jasjit Singh, che diventa il primo sikh a giocare per l'India in Davis, al posto di Anand Amritraj.

Singh batte Bob Giltinan 11-9 9-11 12-10 8-6 nel primo singolare. Johhn Alexander vince sia con Vijay Amritraj che con Singh. I fratelli Amritraj portano il secondo punto all'India al termine di un doppio durissimo, finito 17-15 6-8 6-3 16-18 6-4. E' Vijay a suggellare la vittoria con il 6-1 5-7 6-4 6-4 a Bob Giltinan. In cinque partite sono stati giocati 327 game: un record ancora imbattuto nella storia della Coppa Davis.

“I miei genitori dopo la vittoria hanno ricevuto proposte di matrimonio” ha raccontato Sashi Mehon, riserva nell'incontro con l'Australia.

Il Sudafrica, inserito nella zona sudamericana, beneficia del walkover dell'Argentina, e si qualifica per le finali inter-zona battendo Cile e Colombia a Bogotà. Nelle semifinali, l'India ospita l'Unione Sovietica, mentre in Sudafrica è di scena l'Italia.

Il capitano indiano Krishnan torna a scegliere Anand Amritraj come secondo singolarista. Gli altri componenti della squadra, Singh e Menon, accusano Vijay di aver fatto pressioni sul capitano. Ma Krishnan nega: semplicemente, ha scelto di schierare i giocatori con la classifica migliore. E sarà proprio Anand il grande protagonista. L'India è in vantaggio 2-1, ma lui è sotto due set a uno contro Teimuraz Kakulia. In caso di sconfitta, Vijay dovrà dare tutto contro Alex Metreveli, finalista un anno prima a Wimbledon nell'edizione segnata dal boicottaggio di 81 giocatori in supporto di Nikola Pilic, stella jugoslava esclusa dal torneo per non aver risposto a una convocazione in Coppa Davis.

“Nella pausa dopo il terzo set” ricorda Anand, “mia mamma è venuta negli spogliatoi e mi ha dato una medaglietta con l'immagine della Madonna, una di quelle che si danno a chi sta per morire”. Tornato in campo, Anand vince al quinto. “E' stato il momento più importante di tutta la mia vita”.
Ma ai 2000 metri di altitudine di Johannesburg, un miracolo simile non riesce all'Italia. Nel primo singolare, Zugarelli le prova tutte con Bob Hewitt, e con qualche prima palla in più forse avrebbe potuto anche vincere. Hewitt si impone 46 60 97 46 61. Zugarelli a fine partita scoppia in un pianto dirotto. “Impossibile perdere dopo tre ore e mezza. Tanta fatica per nulla”.

Panatta soffre con Moore, che è più leggero, più veloce e comanda spesso il gioco. Adriano deve forzare sempre il servizio, ma appena la prima non entra arranca. La partita viene sospesa per oscurità a un game dalla fine. Ma alla ripresa Moore chiude il discorso in due minuti: 46 64 63 64. Il doppio Hewitt-McMillan vince 7-5 6-4 10-8 su Panatta e Bertolucci.

McMillan non ha mai fatto dichiarazioni pubbliche contro il regime, mentre Moore è tra i critici più forti dell'apartheid nel mondo del tennis. Il boicottaggio è una prospettiva sempre più concreta. Si tenta anche la strada del compromesso: giocare la finale in campo neutro. “A Ellis Park il pubblico sarebbe stato segregato, con solo una piccola sezione nelle file più alte per i non-bianchi” ha spiegato Sy Lerman che ha seguito la Davis del 1974 per il Daily Mail a Johannesburg.

Il governo indiano decide di boicottare la finale. Il Sudafrica vince senza giocare. “Ci hanno di vestirci e accettare il trofeo” ha raccontato Raymond Moore al New York Times. “Era un onore vedere i nostri nomi sulla coppa, ma vincere così ha lasciato un gusto amaro”.

Il Sudafrica rimane in coppa Davis fino al 1978. Nel '75 Colombia e Messico rifiutano di giocare contro di loro, e i messicani non cambieranno idea l'anno successivo. Nel 1977 il capitano Usa Tony Trabert ha un confronto molto accesso con un tifoso della California che protesta per la decisione di giocare contro i sudafricani (gli Usa vincono 4-1). Alla metà del 1977, 15 nazioni hanno accettato di perdere pur di non giocare contro una nazionale che rappresenta un regime razzista. Il Sudafrica sarà escluso dalla Davis dal 1978 al 1992, quando cade l'apartheid.

All'India resta una coppa in meno. Ma un'eredità morale in più. A spiegarla è ancora Vijay Amritraj, nel suo discorso all'ONU del 1988. “E' facile dire 'teniamo lo sport fuori dalla politica'. In certi casi è praticamente impossibile. Ci sono questioni che dobbiamo appoggiare o alle quali ci dobbiamo opporre, perché siamo esseri umani prima che atleti o atlete... Negli anni ho ricevuto molte offerte vantaggiose per giocare esibizioni in Sudafrica, ma le ho sempre rifiutate. Sento che ogni persona, importante o no, che sia un artista, un diplomatico, un professionista, un atleta ha una certa responsabilità verso i suoi simili e, se posso aggiungere, spero, una coscienza. Perciò sta a ognuno di noi dare il suo contributo verso un mondo migliore. Un mondo di uguaglianza, di dignità, di libertà”.

Articolo pubblicato su Ubitennis

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