lunedì 29 agosto 2011

Fabrizio Mori, un cuore oltre gli ostacoli

Fabrizio Mori



Dieci barriere da 91 centimetri. Un giro di pista. Un giro della morte, in cui misurare i passi, mescolare tecnica e velocità, sprint e resistenza. Sono i 400 ostacoli, disciplina in cui l’Italia ha saputo scrivere una lunga storia di successi.

A cominciare da Luigi Facelli, ideale iniziatore della tradizione azzurra della specialità, due volte finalista olimpico, sesto ad Amsterdam ‘28 e quinto quattro anni dopo a Los Angeles. Vale la pena raccontare, brevemente, la storia e le motivazioni del pioniere dei 400 ostacoli: lo facciamo con le sue stesse parole, tratte dal Littoriale della Domenica del 17 maggio 1942.

venerdì 26 agosto 2011

1999: il viaggio di Azzurra

Sedici anni tra la prima e l’ultima volta. Sedici anni di attesa tra i due titoli europei nella storia del basket azzurro. Sedici anni da Nantes ‘83 a Parigi ‘99. Sempre in Francia, sempre con la Spagna in finale, sempre con un Meneghin in campo. Andrea aveva 8 anni mentre il padre Dino vinceva il primo oro continentale: portò la medaglia come regalo per la prima comunione del figlio.

Il primo trionfo lascio che sia Sfide a raccontarlo.



La nostra macchina del tempo si ferma ad Antibes. È il 21 giugno 1999. Il viaggio di Azzurra all’ultimo Europeo del millennio comincia qui.

martedì 9 agosto 2011

Donato Bergamini, il calciatore suicidato



Chi era davvero Donato “Denis” Bergamini? E soprattutto, perché è morto? Domande che, dopo 22 anni, ancora non hanno trovato una risposta. Centrocampista di Argenta bello e di talento, da cinque anni giocava a Cosenza, in serie B. È una mezzala sinistra, che copre e costruisce, ma che soprattutto ha polmoni d’acciaio e fiato da vendere, qualità che contano più della tecnica nel calcio di provincia. Esordisce tra i dilettanti emiliani, prima all’Imola, poi al Russi.

Nel 1985 il Cosenza, squadra ambiziosa che sogna di tornare in B dopo 20 anni si accorge di lui. E nel 1988 festeggia davvero la promozione. È il glorioso Cosenza di Gianni di Marzio, in cui Bergamini dà il meglio di sé. Sull’asse Bergamini-Padovano si muovono i sogni di una città per cui la serie A non è più un miraggio. È la stagione più bella nella storia del club, la promozione sfuma solo per la classifica avulsa. In estate il Parma fa di tutto per ingaggiare Bergamini, ma la società rossoblu lo dichiara incedibile e lo conferma per un’altra stagione. L’ultima.

lunedì 1 agosto 2011

We are Genoa: 1992, la conquista di Anfield



C’è l’aria dell’esame di maturità e l’atmosfera della corrida. Le bandiere delle Asturie si confondono con quelle rossoblù in un pomeriggio di settembre a Oviedo. La città aspetta l’evento dell’anno, la conclusione della festa di San Matteo, con i migliori tori e toreri di Spagna in piazza. Ma per il Genoa quello è un giorno speciale per un altra ragione. È il debutto in Europa, almeno quella moderna. I precedenti, infatti, si perdono nel bianco e nero dei filmati dell’Istituto Luce, nella sconfitta a Praga contro lo Slavia nella Coppa dell’Europa centrale. L’avversario non è dei più conosciuti, e questo al tecnico Bagnoli piace: così dobbiamo contare solo su noi stessi, dice. In realtà qualcosa sa: da due settimane, infatti, il suo braccio destro Maddè è a Oviedo per studiare una squadra che due anni prima giocava in serie B e alla vigilia della sfida è quarta in classifica. Cinque punti in tre partite, zero gol subiti e un successo a Barcellona sull’Espanyol lo score. L’allenatore degli asturiani, Irureta, come Bagnoli unisce saggezza e aggressività. Schiera un 5-3-2 roccioso, con Carlos e il romeno ex Fiorentina Lacatus di punta.

giovedì 28 luglio 2011

La seconda scoperta dell'America


Da noi si dice che un uruguaiano a cui non piace il fútbol non è un vero uruguaiano” scrive Osvaldo Heber Lorenzo, uno dei giornalisti sportivi più noti del Paese. Il calcio è nel dna degli uruguayani, come dimostra la storia della famiglia di Diego Forlan: il nonno Juan Corazzo ha alzato la Copa America, il padre Pablo ha alzato la Copa America, Cachavacha ha alzato la Copa America. Una coppa speciale, la numero 15, che fa dell’Uruguay la nazionale più titolata del continente, più del Brasile, più dell’Argentina. Ma questa non è la storia della famiglia Forlan. È la storia di come tutto ebbe inizio. La genesi di un movimento che ha il calcio nel sangue.

martedì 26 luglio 2011

Italia-Spagna: epica e magia a Barcellona

La semifinale mondiale di pallanuoto Italia-Spagna non può che far tornare alla mente quell'11 agosto 1992, la finale olimpica di Barcellona, il trionfo a cinque cerchi targato Ratko Rudic.



L’immagine di quella notte è quella di Gandolfi che segna il gol decisivo dopo 6 supplementari e 46 minuti di gioco effettivo. Una finale in Spagna, contro la Spagna, con un arbitro spagnolo, Eduardo Martinez. Coadiuvato da Alfred Carel Van Dorp, il suo è un arbitraggio senza decoro, con la cattiveria di chi favorisce la squadra di casa ma non può condannare alla sconfitta chi ha nel cuore la voglia di vincere. Come dice Eraldo Pizzo: “Non ho mai visto un arbitro far perdere la squadra più forte”

Ecco il racconto di quella finale epica nelle parole di Sandro Perrone:

Dragan Matutinovic, c.t. croato della Spagna, abbassa gli occhi, due anni di promesse naufragano a 32" dalla fine, come prima si e' disperso Manuel Estiarte, l' ultimo romantico che, quando gioca contro i nostri, viene sempre cancellato. Dopo quattro tempi regolamentari (1.0, 3.2, 2.3, 2.1), sei tempi supplementari (0.0, 1.1, 0.0, 0.0, 0.0, 1.0), due ore di gioco con i fantasmi di Madrid 1986 (11.10 ai mondiali per la Jugoslavia dopo otto tempi supplementari, gol di Milanovic a 3" dalla fine), l' espulsione definitiva di Fiorillo, un rigore concesso a Manuel Estiarte a 42" dalla fine del secondo supplementare, la grande calma insegnata da Rudic si concretizza al momento piu' importante: Massimiliano Ferretti passa un pallone d' oro a Nando Gandolfi smarcatosi sotto porta. Il suo tiro e' vincente, non c' e' spazio per la rimonta spagnola. Arriviamo a questo punto dopo una grande partita che il Settebello domina dall' inizio con la solita grande difesa e il solito grande Attolico. L' Italia sta sopra due volte con tre gol di scarto: 4.1 (3' 49" del secondo tempo) e 6.3 (4' 59" del terzo). I ragazzi sono bravissimi ad annullare le superiorita' degli avversari (3 su 16 i gol, contro 2 su 8 per gli azzurri, esattamente la meta' ), a sorvolare sulla tensione che porta all' espulsione del consigliere tecnico Pomilio e a una rissa tra il secondo e terzo supplementare su cui adesso sorvolano tutti. Il Settebello passa attraverso mille piccole torture. Gli arbitri aiutano la Spagna in due occasioni fondamentali, la risollevano nel terzo tempo regolamentare e le concedono un rigore nel secondo supplementare. Ma la maratona nasce da un gol di Oca a 37" dalla fine del quarto tempo, proprio quando sta per scadere il tempo concesso alla Spagna, e li' gli arbitri non c' entrano, c' e' stata una distrazione. A dimostrazione che nella pallanuoto vince il piu' forte i ragazzi di Rudic arrivano: "Abbiamo dimostrato di non essere un' Italietta" commenta Mario Fiorillo che con un grandissimo Campagna regge la squadra nei momenti importanti. Ma e' dal sacrificio di Massimiliano Ferretti, questo gigante ribelle, che arrivano i due gol partita: quello che pareggia il rigore di Estiarte a 20" dalla sirena del secondo supplementare, e' suo il passaggio a Gandolfi per la rete del trionfo mentre la rimonta Spagnola si spegne su un palo.

È il trionfo di Rudic, al terzo trionfo olimpico di fila, con Jugoslavia e Italia. "Io programmo una squadra sul lungo termine e se un giocatore ha un calo di forma non per questo lo tolgo di squadra. Gli automatismi collettivi hanno più valore delle condizioni del singolo" dice a Repubblica. "Questo non implica un immobilismo, perché inseriamo poi sempre dei giovani che portino incoscienza e vivacità. Ma entrare in nazionale è molto difficile e dopo bisogna dare una certa sicurezza al giocatore". Una garanzia che aumenta il carattere, che esalta compattezza e aggressività. "In certi momenti il risultato diventa la priorità assoluta. I giocatori devono dimenticare la scuola, la casa, la vita privata: niente è più importante dell' obiettivo. Io stesso provoco situazioni stressanti, nervose, nelle quali analizzo i miei giocatori sotto sforzo. Così poi li scelgo, in base alle loro reazioni. Gli automatismi tecnici non significano niente se non c' è lo stress: nelle partite importanti si perdono" 


lunedì 18 luglio 2011

Alla partita come alla guerra

Delije è un termine che corrispondente a Eroi e nasce da un canto serbo di epoca ottomana che recitava: “gli eroi iniziano la danza di guerra e il rumore si ode a Istanbul”. Identifica anche i tifosi della Stella Rossa di Belgrado, convinti di aver combattuto la prima battaglia nella guerra dei Balcani.

È il 13 maggio 1990, la Stella Rossa affronta la Dinamo Zagabria. Gli ultras croati sono i Bad Blue Boys, BBB, che prendono il nome da Bad Boys, un film del 1983 con Sean Penn ambientato tra la galassia delle bande giovanili americane.

La loro reputazione di tifosi violenti cresce. Ma, come scrivono sul loro sito, “non importa prendere botte se è per provare l’amore per il club. La Dinamo era ed è qualcosa di sacro”. Talmente sacro che hanno edificato un altare dietro una delle tribune, per i tifosi scomparsi.

Fuori dallo stadio Maksimir, scrive Jonathan Wilson in Behind the curtain, “c’è una statua che raffigura un gruppo di soldati. Sul piedistallo è scritto: Ai tifosi di questo club, che hanno iniziato contro la Serbia su questo campo il 13 maggio 1990”.

Una settimana prima si erano concluse le elezioni, che si svolsero con un sistema maggioritario che favoriva in modo esponenziale il partito che prendeva più voti, che avevano visto trionfare l’HDZ, un partito conservatore di destra, profondamente nazionalista, che predicava valori basati sul Cattolicesimo mescolati con tradizioni storiche e culturali, in genere, che nella Jugoslavia comunista non potevano esprimersi al meglio (molti ex comunisti passarono all'HDZ piuttosto che al partito erede del partito comunista cha alle prime elezioni democratiche in Croazia cambiò il nome in Partito dei cambiamenti Democratici, considerando che la Lega dei Comunisti Croati aveva deciso di passare al sistema democratico di propria volontà senza che vi fossero forti pressioni di piazza). Lo scopo era di conseguire l'indipendenza dello stato croato.

Franjo Tudjman, presidente del Partizan negli anni Cinquanta, diventa presidente della Croazia. Un anno dopo la Dinamo Zagabria cambia nome in HASK Gradanski (che deriva dalle due squadre dall’unione delle quali era natala Dinamo nel 1945) e nel 1993 cambia ancora in NK Croazia Zagabria. Tudjman si oppone al ritorno al nome Dinamo perché considerato troppo comunista (nel mondo sovietico, Dinamo era il nome che identificava le squadre della polizia). I tifosi della squadra, i Bad Blue Boys, sostengono che attraverso quel nome hanno difeso l’orgoglio croato nella Jugoslavia comunista. Il club torna alla vecchia denominazione nel 1999, due mesi dopo la morte di Tudjman e la sconfitta dell’HDZ alle elezioni.

Il suo uso della sahovnica, l’emblema a scacchi bianchi e rossi un tempo simbolo degli Ustase, i croati fascisti che avevano collaborato con i Nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, sembrava una provocazione. Non ha mai nascosto il suo nazionalismo: “Grazie a Dio mia moglie non è ebrea né serba” ha detto una volta.
Anche la Repubblica Serba è governata da un leader rampante, nazionalista e fortemente estremista: Slobodan Milosevic.

Alle prime elezioni libere del 7 maggio 1990 proprio l’HDZ ottiene una larghissima maggioranza parlamentare, al termine di una campagna elettorale impostata su toni di feroce contrapposizione nei confronti della Repubblica Serba, di fatto la nazione accentratrice, governata a propria volta da un leader rampante ugualmente nazionalista ed estremista: Slobodan Milošević.

In questa atmosfera già surriscaldata al limite del parossismo, il 13 maggio si sfidano il simbolo dell’orgoglio croato, la Dinamo, e l’immagine del nazionalismo serbo, la Stella Rossa di Belgrado. La violenza è inevitabile.
Al di là delle molte versioni, la violenza era premeditata: i Delije conservano massi, usano acido per tagliare le barriere di sicurezza. Ma, come ricorda il giornalista americano Franklin Foer in How football explains the world, i Bad Blue Boys fanno praticamente lo stesso.

Sembra che i Delije abbiano portato anche una serie di targhe serbe che hanno attaccato sopra quelle croate sulle auto locali spingendo i BBB a distruggerle.

Il capo di Delje, ancora non confluiti nei gruppi paramilitari delle Tigri (erano a Vukovar, nel 1991, quando centinaia di croati furono presi di forza dagli ospedali, trascinati nei campi e uccisi), è Željko Ražnatović, ma tutti lo chiamano col nome di battaglia: Arkan.

Chi è Arkan
Figlio ribelle di un colonnello dell’Aeronautica di Tito, viene arrestato per la prima volta a 17 anni e condannato a tre anni di detenzione in una prigione minorile. Uscito di prigione, Arkan si sposta in Europa occidentale e inizia una “carriera” come rapinatore di banche. Viene arrestato in Belgio, Olanda, Germania ma riesce sempre a scappare. Diventa una figura mitica: una volta, per far liberare un suo complice, si presenta nell’aula di tribunale e punta una pistola in faccia al giudice. Noto, contrariamente a molti altri criminali, per essere astemio, nel 1986 torna a Belgrado: apre una pasticceria di fronte allo stadio Marakana, compra una Cadillac rosa e lavora più apertamente di prima per il Servizio di Sicurezza jugoslavo (UDBA).

Nello stesso anno i membri dell’Accademia serba delle Arti e delle Scienze pubblicano un memorandum per esprimere la loro insoddisfazione verso la posizione riservata ai serbi nella costituzione jugoslava e Slobodan Milosevic diventa il leader del Partito Comunista serbo. Un anno dopo Milosevic è presidente della Serbia. I tifosi, che avevano portato con onore immagini di Vuk Draskovic, scrittore dissidente e leader del Movimento di Rinnovamento Serbo, appoggiano la sua politica. Milosevic, però, conosce i rischi delle loro anarchiche passioni e chiede a Jovica Stanisic, allora capo della sicurezza dello stato, di convincere Arkan a controllare la violenza dei tifosi della Stella Rossa. Arkan capisce che la Stella Rossa può essere per lui quello che il Real Madrid era stato per Francisco Franco: una forza di potere e di influenza nella società.

Abbiamo allenato i tifosi senza le armi” ha detto Arkan, secondo quanto rivela Jonathan Wilson in Behind the Curtain. “Ho insistito fin dall’inizio sulla disciplina. Ai nostri tifosi piaceva bere, fare casino. Io ho fermato tutto questo, immediatamente. Li ho convinti a tagliarsi i capelli, a radersi tutti i giorni, a smettere di bere”. Così una banda di hooligans è diventata i Delije, uno dei gruppi di tifosi più temuti d’Europa.

Ma non fa solo questo. Controlla la vendita di biglietti, organizza le trasferte e, se necessario, minaccia gli arbitri. Fa costruire una casa in marmo e vetro fumé con antenne paraboliche sul tetto proprio di fronte allo stadio. E inizia anche a organizzare le Tigri, i suoi gruppi nazionalisti paramilitari per andare a combattere in Kosovo e Croazia. I suoi “soldati” si danno al saccheggio, costituiscono compagnie monopolistiche per il commercio di alcol e sigarette e così guadagnano più di gran parte dei cittadini serbi. Le Tigri arrivano in maggioranza dalla curva nord del Marakana, cui si aggiungono molti tifosi del Partizan, i Becchini.

Un tifoso della Stella Rossa, Dejan Vukelic, ha raccontato a Jonathan Wilson che viveva in Cina all’epoca della prima guerra dei Balcani. Decide però di tornare in patria per unirsi all’esercito jugoslavo ma lo trova in pieno caos. A quel punto viene a sapere dei campi di allenamento di Arkan. “Da nazionalista credevo fosse mio dovere essere lì. All’inizio la disciplina e l’ordine mi hanno impressionato. Era essenziale l’enfasi sulla pulizia etnica dei croati e dei musulmani dal territorio serbo. Ma non sono stato testimone delle atrocità o dei comportamenti criminali di cui parla la stampa occidentale

Quel giorno a Zagabria...
Al Maksimir, i Bad Blue Boys non vogliono essere da meno degli odiati nemici e iniziano a intonare una serie di cori di provocazione per preparare il terreno alla rissa. Quando dagli altoparlanti l’annunciatore comincia a recitare le formazioni, la situazione degenera. La polizia non può fare nulla per contenere i tifosi serbi che scavalcano le deboli recinzioni e invadono l’anello superiore della curva distruggendo tutto quello che incontrano. La milicija li guarda lanciare in aria cartelloni e sedie di plastica mentre qualche temerario tifoso croato tenta di sfidarli.

Arrivano nel settore belgradese, ma sono in inferiorità numerica e negli scontri corpo a corpo i calci e i pugni presi sono più di quelli dati. Ma altri si aggiungono: rompono le recinzioni e invadono in massa il campo. La “guerra in miniatura” si sposta presto dagli spalti in campo. Molti giocatori scappano negli spogliatoi. Non Zvonimir Boban, che si avventa su un poliziotto e gli grida: “Vergognatevi. State massacrando i bambini”. L’agente lo colpisce due volte urlando: “Brutto figlio di puttana. Sei come tutti gli altri!” A quel punto Boban reagisce d’istinto e con una ginocchiata gli frattura la mascella. Per la Croazia, lui diventa un eroe mentre il poliziotto è il simbolo del declino dell’oppressione serba. Anche se quel poliziotto non era nemmeno serbo, ma un bosniaco musulmano che anni dopo dirà di perdonare il gesto di Boban e di comprenderne le ragioni.

Anni dopo, Boban dirà: “Ero un volto pubblico, ma ero preparato a rischiare vita carriera e tutto quello che la fama mi avrebbe potuto portare per una causa ideale, la causa croata”. Boban viene sospeso dalla Federazione jugoslava per sei mesi ed è costretto a saltare i Mondiali del 1990. La sua foto mentre colpisce il poliziotto fa il giro del mondo. Per dieci giorni deve scappare, cambia rifugio ogni notte per evitare i rastrellamenti della polizia. Ma viene comunque arrestato e processato. “Ma al processo tentarono l' ultimo sporco imbroglio presentando una videocassetta dell' incidente contraffatta. Era stata montata in modo che io sembrassi l' aggressore e il poliziotto la vittima. Mi diedi da fare, recuperai la cassetta originale presso una Tv tedesca e riuscii a cavarmela smascherando l' imbroglio”.

Zvone viene squalificato per nove mesi (ridotti a 4) e deve saltare Italia ‘90, l’ultima manifestazione calcistica cui partecipa la Jugoslavia unita. Il 3 giugno 1990, a Zagabria, la nazionale jugoslava affronta l’Olanda nell’ultima amichevole pre-mondiale: il pubblico si schiera per Van Basten e compagni e urla un solo nome, quello di Zvonimir Boban. Senza mai nascondere la sua fede nazionalista e la sua vicinanza al presidente della repubblica Franjo Tudjman, che considera il più grande eroe della storia croata, Boban ha improntato la sua leadership nella nazionale attraverso una innegabile impronta politica. “Facendo bene il mio mestiere” ha detto “posso essere utile come chi ha combattuto al fronte”.

Il suo calcio al poliziotto scatena l’inferno. I più temerari tra i BBB riescono ad arrivare nel settore opposto del Maksimir e rubare gli striscioni della tifoseria della Stella Rossa, che agitano in aria come insegne di guerra. A questo punto anche la Milicija è costretta a passare in azione. Estraggono i manganelli, lanciano i lacrimogeni, fanno entrare i vecchi veicoli anti-incendio. Riescono a domare, almeno un po’, i tremila Delije ma non i più numerosi Bad Blue Boys che si danno alla guerriglia dentro e fuori lo stadio.

La partita, alla fine, non si gioca. Tra i settanta minuti di battaglia dentro lo stadio e le tre ore per le strade della città, si contano 59 tifosi e 79 agenti feriti, 17 tram e decine di auto devastate, 132 tifosi arrestati.
L' agenzia di stampa jugoslava Tanjug racconta che i tifosi hanno eretto barricate nelle strade, devastato un' auto della polizia, tre tram e hanno incendiato una jeep. La polizia è accusata di non essere intervenuta subito con decisione. Tifosi e giocatori serbi sono rimasti assediati dagli avversari nello stadio e hanno quasi distrutto l' impianto, mentre diverse centinaia di tifosi della Dinamo si riuniscono nella piazza centrale di Zagabria, cantano l' inno nazionale croato e inneggiano a Franjo Tudjman. I giornali jugoslavi cercano di minimizzare la portata nazionalista degli scontri e puntano il dito contro gli animi accessi di calciatori e tifosi. I giornali accusano le autorità di non essere riuscite prevenire gli incidenti mentre i politici si affannano a negare la matrice etnica degli scontri, mentre il quotidiano di Belgrado Politika si è limitato a scrivere che questo è uno dei momenti più amari della storia del calcio jugoslavo.

Ma per Neven Andjelic, autore di Bosnia-Erzegovina: la fine di un’eredità, “è stato il match più importante nella storia della Jugoslavia. Ha implicazioni politiche ed è un segno chiaro che anticipa la violenza e la guerra che presto sarebbero arrivate”.

venerdì 15 luglio 2011

Hornets, this is your song

Qualche volta, il calcio rivela tutta la sua magia. Perché, qualche volta, i pesci piccoli riescono a mangiare i pesci grandi. E questo è il racconto di una di quelle occasioni. È il racconto di una stagione irripetibile. La storia del primo, storico, indimenticabile campionato di First Division del Watford. È il 1982-83, l’anno in cui volano i Calabroni.

Nel 1977 il primo tifoso del Watford diventa presidente della squadra dei suoi sogni. Non è un presidente qualunque, perché non è un tifoso qualunque: è Elton John. La sua prima mossa è scegliere come allenatore Graham Taylor, che a 27 anni era diventato il più giovane coach con patentino della FA, e gli offre un contratto quinquennale. Il Watford langueva in quarta divisione, era stato al massimo in seconda serie per tre anni. Taylor gli chiede: dove vuole che arriviamo nei prossimi cinque anni? Risposta: voglio vedere il Watford in Europa.

Negli anni Settanta, Taylor è l’allenatore più radicale di tutta Gran Bretagna: propone una versione evoluta del “kick and rush”, calcia e corri. Come hanno già dimostrato in passato Stan Cullis e una serie di manager a partire da Herbert Chapman, è impossibile per una squadra arrivare al successo se tutto quello che i giocatori fanno è lanciare la palla in avanti senza senso. “Quando un passaggio lungo diventa una palla lunga” si chiede Chapman.

Il nostro stile era basato sul pressing. Così, anche se il terzino destro era in possesso del pallone nella sua metà campo, noi andavamo a pressarlo. Giocavamo un calcio ad alto ritmo, perciò dovevamo essere in perfetta condizione fisica. Quando il punteggio è sullo 0-0 con tre o quattro minuti da giocare, i giocatori che fanno? Lanciano la palla in avanti e i giocatori cercano il pallone. Ma allora perché non farlo dai primi minuti, se i giocatori sono in perfetta forma?”.

Matura la sua concezione del pressing grazie ad alcuni articoli pubblicati sulla rivista della FA su Viktor Maslov, lo storico allenatore della Dinamo Kiev degli anni Sessanta, precursore della scientificità di Valerij Lobanovskij e del calcio totale olandese. Arriva alla Dinamo Kiev nel 1964, quando in Unione Sovietica, dopo il successo della nazionale agli Europei di quattro anni prima, dominava il 4-2-4. Maslov studia il Brasile del 1958 e riconosce l’importanza di far arretrare uno degli attaccanti per creare un centrocampo a tre, se necessario. E spinge l’idea ancora più in là, introducendo il 4-4-2 anni prima di quello che da molti è considerato il pioniere di questo modulo, Sir Alf Ramsey.

Con la Dinamo vince tre scudetti di fila, nel 1966, 67 e 68 e la coppa nazionale nel 1966: in sostanza, sposta da Mosca a Kiev la capitale del calcio sovietico. Il modulo, comunque, non è l’unica rivoluzione che porta la sua firma. “La marcatura a uomo umilia, insulta, opprime moralmente chi vi ricorre” ha sempre sostenuto. Maslov è l’uomo che inventa la zona. Pone un enfasi crescente sull’organizzazione totale in ogni zona del campo, in fase di possesso e di non possesso, nega libertà di movimento agli avversari con il brillante posizionamento degli uomini, costruisce la manovra prendendo l’iniziativa in zone inattese del campo.

È anche il primo allenatore a porre grande attenzione alla preparazione fisica e alla nutrizione dei giocatori, perché un tale stile di gioco richiede una forma fisica perfetta per essere efficace. Esattamente come il “kick and rush” evoluto professato da Graham Taylor.

Alla prima stagione, il suo Watford domina la Fourth Division, che vince con 71 punti, 11 in più della seconda, il Southend United. È il record assoluto per la divisione, a tre dal primato in Football League fatto registrare dal Lincoln City, allenato sempre da Taylor, nel 1975-76. Quell’anno segna una serie di altri primati per la storia del club: maggior numero di vittorie sia totali (30) che in casa (18) che in trasferta (12) e maggior numero di gol segnati fuori casa (42).

In questa prima stagione della gestione Watford, Taylor acquista Ian Bolton, il centrocampista su cui costruirà le sue fortune e che diventerà capitano degli Hornets. “Quando sono arrivato al Watford” ha spiegato in un’intervista, “Graham Taylor portava con sé un grande libro di tattiche. Il concetto base era che se la palla era nella metà campo avversaria, loro non potevano segnare ma noi sì. Taylor guardava quanti tiri e quanti cross riuscivamo a fare, perché se non attacchi non tiri e se non tiri non segni”. Bolton si è subito ambientato in questo “gruppo di giocatori che avevano qualcosa da dimostrare, un po’ come la sporca dozzina”. Taylor, che lo considerava superiore a Glenn Hoddle, l’ha impiegato in diverse posizioni ma lui preferiva giocare da numero 6, da difensore.

Taylor fa anche un’altra mossa coraggiosa, che avrà un impatto notevole nel futuro della squadra: promuove dalle giovanili Luther Blissett.

E' stato un compagno di squadra, Paul Kitson, a portarlo a una sessione d’allenamenti per giovani promesse organizzata dal club. Dopo due settimane, Blissett partecipa a un test amichevole, contro l’U-17 del Southend. Il Watford vince 3-1 e lui segna due gol: con gli Hornets è amore a prima vista.

Quello che Taylor ha portato” ha detto Blissett in un’intervista, “era un pensiero semplice: giocare in base alle nostre forze. E la forza della nostra squadra erano gli attaccanti e le ali. Perciò quello che la squadra cercava di fare era portare il pallone in zone da cui potevamo segnare. Ogni nostra partita era eccitante da guardare e da giocare perché giocavamo sempre per vincere. Contro di noi i difensori dovevano sempre essere concentrati al massimo e spesso non ci riuscivano. In più, non sempre capivano quello che avremmo cercato di fare e dunque non sapevano esattamente cosa fare per fermarci”. Blissett diventerà il giocatore con più presenze e più gol segnati nella storia del club. Ma Blissett, che segna 95 gol in 245 partite al Watford, ne sbaglia almeno altrettanti e si guadagna il soprannome di “Miss it” (Sbaglialo) che lo accompagnerà, per di più senza la stessa vena realizzativa, nella parentesi al Milan.

Nella stagione successiva il Watford si ripete. Grazie alla perfetta organizzazione di gioco e ai gol di Ross Jenkins, capocannoniere con 29 reti, gli Hornets ottengono la seconda promozione consecutiva. Chiudono la stagione al secondo posto con 60 punti, a una lunghezza dalla capolista, lo Shrewsbury Town, e una di vantaggio dalla quarta, il Gillingham.

Il tris immediato non riesce. La prima stagione di Second Division si conclude con una salvezza tranquilla, con sette punti di vantaggio sul Fulham, la prima retrocessa. Il dichiarato obiettivo di arrivare in First Division non riesce nemmeno l’anno successivo. Il Watford gioca bene ma non va oltre il nono posto, a 43 punti, sette in meno dello Swansea, che chiude terzo e aggancia l’ultimo posto utile per la promozione. È l’anno del West Ham, che ha vinto l’FA Cup del 1980 contro il Liverpool e torna in massima serie spinto dai 22 gol di David Cross.

Ma alla terza stagione consecutiva in Second Division i Calabroni volano nell’élite del calcio inglese. Vincono 23 partite su 42, chiudono secondi con 80 punti grazie ai 25 gol di Blissett, al genio di John Barnes e alla velocità di Nigel Callaghan.

Il 4-4-2 è il modulo principe, anche se in alcune occasioni poteva ricordare più il 4-2-4 del Brasile 1958 e nella prima stagione in First Division in qualche match Taylor ha giocato col 3-4-3. Una squadra così offensiva crea problemi ai centrocampisti offensivi avversari: seguire terzini e ali arretrando o lasciarli liberi?

Al debutto in First Division il Watford vince 2-0 contro l’Everton. Alla seconda, arriva anche la prima vittoria in trasferta, 4-1 sul campo del Southampton. Contro i Saints era arrivata la famosa rimonta in Coppa di Lega nel 1980 con gli Hornets capaci di passare il turno vincendo 7-1 in casa dopo aver perso 4-0 all’andata. Con Elton John in tribuna, il Watford domina la scena. Nigel Callaghan segna una doppietta e serve l’assist a Gerry Armstrong prima della rete definitiva segnata di testa da Jenkins. Per Peter Shilton, al debutto casalingo con la maglia dei Saints, è un giorno da dimenticare.

Alla quinta giornata, il 12 settembre, arriva il quarto successo nelle prime cinque giornate: 3-0 al West Bromwich, con doppietta di Blissett e gol di Les Taylor. Il 3-3 tra Luton e Liverpool porta il Watford in testa alla classifica grazie alla miglior differenza reti rispetto a Manchester City e Manchester United.

Il 25 settembre 1982 è una data che i tifosi degli Hornets non dimenticano facilmente. Il Watford batte il Sunderland 8-0: è la vittoria più larga nella storia del club, che arriva nella settima partita della sua storia in First Division. Eppure il Sunderland all’epoca non è una squadra così debole, può vantare giocatori come Barry Venison, Ally McCoist e Jimmy Nichol e sfiora il gol in avvio. Ma il Watford è inarrestabile. Segna quattro gol per tempo in quello che rimarrà come il giorno più bello per Luther Blissett. Due settimane prima un gol annullato per fuorigioco gli aveva impedito di festeggiare la prima tripletta in First Division. Ne segna 4 al Sunderland, annichilito anche dalle doppiette di Jenkins e Callaghan.

L’isteria mediatica intorno al Watford e al loro modo di giocare snobbato dalla stampa inizia davvero a novembre, dopo l’1-0 al White Hart Lane. La prima trasferta in campionato sul campo del Tottenham coincide con il ritorno di Glenn Hoddle nel centrocampo degli Spurs dopo un infortunio. I padroni di casa cercano riscatto dopo essere usciti al secondo turno in Coppa delle Coppe dopo l’1-4 contro il Bayern nella nebbiosa notte di Monaco.

Gli Hornets, sesti in classifica alla vigilia del match, sono spinti dalla passione di 9 mila tifosi. Gli Spurs soffrono a centrocampo, Hoddle è sovrastato dall’energia di Kenny Jackett e del match-winner Les Taylor. Bolton, schierato in difesa, è sontuoso e non concede quasi nessuna punizione in posizione pericolosa pur dovendo fronteggiare due attaccanti di livello come Crooks e Archibald. Sulle fasce gli Hornets dominano e conquistano ben 19 calci d’angolo.

Gli Spurs, anziché sfruttare le loro maggiori qualità di palleggio non fanno altro che lanciare lungo per le punte che però si aspettano di ricevere il pallone tra i piedi. Ma qualche buona occasione arriva. Sherwood, il portiere ospite, salva su Crooks e Hoddle nel primo tempo e due volte su Archibald nel secondo. Si gioca a un ritmo altissimo.

E nell’ultimo quarto di gara la pressione ospite si fa ancora più forte. Clemence nega il gol a Blissett, Barnes e Callaghan. Poi, su una rimessa lunga di Blissett, Jenkins evita due avversari e tira, Clemence respinge ma Taylor è più veloce di tutti e fa esplodere lo spicchio di tifosi ospiti.

La vittoria finale è accompagnata, però, da un coro di critiche. Taylor e Jackett sono accusati di tackle irrispettosi su Hoddle. Burkinshaw, manager del Tottenham, dichiara: “Io non giocherò mai come loro”.

Passano venti giorni e il Watford si ripete dando un altro “colpo” ai puristi: si impone 4-2 ad Highbury sull’Arsenal di Don Howe. Come la stampa commenterà il giorno dopo, il Watford ha fatto di tutto per vincere, le stelle dei Gunners invece hanno aspettato che le cose succedessero. Nel primo tempo l’Arsenal si vede annullare un gol probabilmente buono (su un calcio di punizione Rostron va a sbattere contro Sherwood e permette a Sunderkand di segnare a porta vuota, ma l’arbitro non concede il gol vedendo una spinta di O’Leary su Rostron). Il Watford ci prova con Barnes, che di testa mette alto, ma al 39’ l’Arsenal passa in vantaggio. Rostron batte una rimessa laterale, Jacket si fa rubare palla da Talbot che taglia il campo con un passaggio di 30 metri verso Tony Woodcock bravo a far filtrare verso Robson che di prima, dal limite, batte Sherwood. Il vantaggio dura tre minuti. Rinvio di Sherwood, sponda di Jenkins, la difesa dell’Arsenal non è preparata ad essere messa così presto sotto pressione, Blissett raccoglie e vede l’inserimento di Barnes che conclude e pareggia anche grazie alla deviazione di White. Wood è battuto: 1-1.

Quando sono trascorsi quattro minuti dall’inizio della ripresa Jackett conclude dalla distanza, la palla sta per finire fuori ma sbatte sulla gamba di Blissett: 2-1 Watford. Sherwood sale in cattedra: splendido il salvataggio per alzare sulla traversa il tiro di Robson, poi si ripete su Sunderland e sullo stesso Robson. Ma in contropiede il Watford è implacabile. Rice apre per Callaghan che di prima vede il movimento di Jenkins in area; il portiere Wood esce e lo anticipa, ma sul pallone arriva Barnes che lo scavalca con un pallonetto e segna a porta vuota.

I Gunners non ci stanno e al 74’ accorciano. Cross di Davis, Talbot si inserisce alle spalle della difesa e gira tra le gambe di Sherwood. L’Arsenal insiste, si gioca senza un attimo di tregua. Ma l’ultimo gol è ancora del Watford. Blissett anticipa O’Shea e allarga per Barnes, il suo diagonale viene deviato da Robson che, per anticipare Jenkins, scavalca Wood. Autorete e partita finita. “Da quanto tempo” si chiederà Taylor a fine partita, “i tifosi non vedevano sei gol ad Highbury?”. Almeno dagli anni Cinqunta.

Dicembre, però, non è un gran mese per gli Hornets che chiudono l’anno solare 1982 al sesto posto. Gennaio si apre con il pareggio a Brighton e la vittoria sil Manchester City. A febbraio gli Hornets vincono a Swansea, che hanno impiegato un anno meno del Watford a passare dalla Division 3 alla Division 2. Nel 1979 John Toshack, dopo un pareggio a Vicarage Road, disse: “Dovremmo battere squadre così”. Per i tifosi dei Calabroni vincere in Galles ha il sapore dolce della vendetta.

Ma a febbraio arriva soprattutto il successo interno sull’Aston Villa, i campioni d’Europa in carica che avrebbero affrontato la Juventus in Coppa Campioni il successivo mercoledì. I Villans sono quinti in classifica, gli Hornets secondi dietro il Liverpool. Si gioca su un campo zuppo, la pioggia non ha risparmiato la città nelle 24 ore precedenti. Solo una settimana prima, l’Aston Villa aveva eliminato i Calabroni dall’FA Cup. Ma al Vicarage Road il match è dominato dal Watford. Blissett firma il vantaggio con una conclusione dal limite. Ma Walters pareggia con un pallonetto da fuori area approfittando di uno dei rari errori di Bolton.

Al 90’ il punteggio è fermo sull’1-1. Wilf Rostron tenta una conclusione disperata, ma la palla scheggia il palo ed esce. Rinvio del portiere, che colpisce male. La palla si impantana nel fango a circa 25 metri dalla porta. Rotola verso Rostron che senza pensarci tira. È un gol spettacolare. Il portiere avversario Nigel Spink non ha la minima chance di arrivarci. Davanti agli occhi di Elton John arriva una delle vittorie più memorabili di una stagione incredibile. In primavera il Watford continua a dare spettacolo in casa: 5-2 al Luton, 5-3 al Notts County, ma balbetta in trasferta.

Il 19 aprile il Liverpool si laurea matematicamente campione d’Inghilterra, ma gli Hornets possono ancora inseguire l’Europa. E l’Europa arriva. All’ultima giornata il Watford affronta in casa i neo-campioni allenati da Bob Paisley, il manager di maggior successo nella storia del campionato inglese, che in nove anni ad Anfield ha vinto sei scudetti, tre Coppe dei Campioni una Coppa Uefa e tre Coppe di Lega. Ma l’ultimo titolo è arrivato prestissimo, con sette giornate d’anticipo. Nelle successive sei partite prima della trasferta conclusiva a Vicarage Road, i Reds hanno ottenuto due pareggi e quattro sconfitte.

Dopo 49 minuti il Watford è avanti 2-0. Blissett, già pericoloso con un colpo di testa che Grobbelaar devia in angolo, firma l’assist per il vantaggio. Ed è straordinario che a firmarlo sia Martin Patching. I legamenti del ginocchio destro del 24enne difensore si sono rotti in maniera così grave che i dottori gli hanno detto che in un solo caso, un rugbysta dilettante, il recupero è stato talmente positivo da consentire un ritorno all’attività sportiva. Patching chiede la compensazione alla Lega e compra un pub a Potten End, un villaggio dell’Hertfordshire. Ma Taylor lo convince a non lasciare il calcio: così Patching può mettere anche il suo sigillo su una stagione da leggenda.

Il secondo gol è abbastanza fortunoso. Franklin, alla prima presenza stagionale, lancia verso Barnes che mette in mezzo per Blissett, solo contro tre avversari. In qualche modo, però, il caraibico riesce a far carambolare il pallone alle spalle di Grobbelaar.

Il gol di Johnston, di testa, non adombra la festa. Il Watford chiude al secondo posto, in quello che è ancora oggi il miglior piazzamento di sempre della squadra. Elton John e Graham Taylor hanno mantenuto la promessa. In cinque anni, i Calabroni sono volati in Europa.


giovedì 14 luglio 2011

Miracle on ice


Olimpiadi invernali del 1980, Lake Placid. Gli Usa vincono la medaglia d'oro battendo nel secondo, e decisivo, incontro del gruppo delle medaglie la Finlandia. Ma la partita che tutti ricordano è la prima del gironcino finale, che possiamo considerare come la semifinale. Stati Uniti contro Unione Sovietica.

Siete nati per essere giocatori. Il vostro destino è essere qui in questo momento. Il vostro destino è giocare questa partita”. La partita è Usa-Urss, semifinale di hockey su ghiaccio alle Olimpiadi del 1980 a Lake Placid. A parlare è Herb Brooks, coach della nazionale statunitense. Ancora non sa che il destino dei suoi ragazzi non è giocare ma vincere quella semifinale e convincere una nazione che, qualche volta, i miracoli possono accadere.

Le nazionali

Gli Usa sono l’ultima nazionale ad aver battuto l’Unione Sovietica alle Olimpiadi: è successo nel 1960. In quella nazionale avrebbe potuto esserci anche Herb Brooks, ma non ha superato l’ultimo taglio prima della convocazione della rosa definitiva. Nelle successive quattro edizioni, i sovietici hanno registrato 27 vittorie, un pareggio, una sconfitta. In quella nazionale giocavano l’ala destra Boris Mikhailov, Vladislav Tretiak, considerato all’epoca il miglior portiere del mondo, il talentuoso Valeri Kharlamov e il difensore Viacheslav Fetisov. Questi ultimi tre entreranno nella Hall of Fame.

La nazionale a stelle e strisce era invece composta da giocatori di livello universitario, con un’età media di 22 anni. Solo Buzz Schneider aveva fatto parte della spedizione ai Giochi di Montreal, quattro anni prima. Brooks pesca nelle due aree di maggiore diffusione dell’hockey: il New England, soprattutto Boston, e le regioni fredde del Midwest, Minnesota e Wisconsin. Alla fine, dei 20 selezionati, nove provengono dall’Università del Minnesota, 13 da Boston.

A settembre iniziano una serie di 61 amichevoli in cinque mesi. L’ultima, il 9 febbraio 1980, tre giorni prima della cerimonia d’apertura, al Madison Square Garden, contro l’Unione Sovietica. L’Urss vince 10-3. Per il coach sovietico Viktor Tikhonov quell’amichevole si rivelerà un boomerang perché i suoi ragazzi sottovaluteranno gli Usa in semifinale.

In quei sei mesi Herb Brooks, da St.Paul, Minnesota, fa molto di più che costruire una squadra. All’epoca allenava la squadra dell’Università del Minnesota con cui aveva vinto tre titoli negli anni Settanta. In quei sei mesi cancella i dubbi del Comitato Olimpico, scettico sulla sua nomina di allenatore della nazionale olimpica, e trasforma quel gruppo di studenti nell’immagine del capitalismo, dell’American way of life applicata all’hockey: competizione, esuberanza, gioventù.

Iniziano le Olimpiadi

Gli Usa, settima testa di serie tra le dodici nazionali, sorprende per il suo gioco fisico e la coesione di squadra. Nel match d’esordio, contro la Svezia, tra le favorite per la vittoria finale, riescono a pareggiare 2-2 segnando il gol decisivo a 27 secondi dalla fine grazie alla mossa di Brooks che toglie il portiere Jim Craig per aggiungere un attaccante.

La nazionale a stelle e strisce vince le successive quattro partite. Prima del secondo incontro, Dave Christian in spogliatoio modella un paio di ali e una coda da un cartone di Budweiser e se le attacca al casco. Gli Usa volano e battono 7-3 la Cecoslovacchia. Nel match successivo, gli Usa chiudono il primo periodo in svantaggio 0-1 contro la Norvegia. Dave Silk, nell’intervallo, chiede maggior supporto tra i compagni di squadra e chiede a ognuno di dire solo cose positive agli altri. “Eravamo giovani e immaturi” commenta Mike Eruzione. Ma la tattica funziona e gli Usa vincono 5-1, poi sconfiggono 7-2 la Romania e 4-2 la Germania Ovest.

Nell’altro girone i sovietici hanno vita facile. Battono 16-0 il Giappone, 17-4 l’Olanda, 8-1 la Polonia, 4-2 la Finlandia e 6-4 il Canada. Al girone per le medaglie arrivano Usa e Svezia dal gruppo A, Urss e Finlandia (che dopo aver perso con la Polonia il primo incontro riesce a sorprendere il Canada) dal gruppo B.

Tikhonov prepara il girone tenendo i giocatori a riposo, facendo loro studiare schemi e strategie. Brooks porta i suoi sul campo, li fa pattinare, mette il gruppo del Minnesota contro quelli di Boston, li sprona come un generale dei marines farebbe con le ultime reclute arrivate in un film di guerra. Celebre una sua frase: “giocate sempre peggio ogni giorno. Adesso state giocando come alla metà del mese prossimo”.

La sua è una forma certo singolare di motivazione. Il suo obiettivo è spingere alla coesione perché, dice ai suoi, “non avete abbastanza talento per vincere solo grazie al talento”. Per questo “non potete essere normali, perché l’uomo comune non va da nessuna parte. Dovete essere speciali”.

Dave Anderson, del New York Times, scrive: “A meno che il ghiaccio non si sciolga o avvenga un miracolo come negli anni Sessanta, i sovietici stanno per conquistare agevolmente la sesta medaglia d’oro nelle ultime sette Olimpiadi”. Il ghiaccio non si scioglierà, ma l’Urss non salirà sul gradino più alto del podio.

Credete nei miracoli?

Gli 8,500 posti della Field House sono stracolmi di bandiere e di tifosi che cantano God Bless America. Ma gli altri americani, quelli che non fanno parte degli 8.500 fortunati, non possono guardare la partita nemmeno in tv. Il match è in programma alle 17. Gli Usa hanno chiesto ai sovietici se fossero d’accordo a spostarla alle 20, ma la proposta è stata declinata perché, per i telespettatori sovietici avrebbe significato un fischio d’inizio alle 4 di mattina.

Perciò la ABC decide di non trasmetterlo in diretta, ma solo in differita registrata in prime time. Telecronista dell’incontro è Al Michaels, che commenta insieme all’ex portiere dei Montreal Canadiens Ken Dryden, che solo il giorno prima ha sostenuto a Toronto il “bar exam”, un esame periodico previsto, in alcune giurisdizioni, per l’esercizio della professione forense.

Michaels è stato scelto perché è l’unico, tra i telecronisti sportivi della ABC, che avesse mai commentato un match di hockey. Ma proprio uno di numero: la finale del torneo olimpico del 1972 tra Urss e Cecoslovacchia (vinto dai sovietici 5-2). E allora era stato selezionato perché da ragazzo era stato appassionato di hockey e perché, semplicemente, nessun altro voleva commentare il match.

La CTV, la televisione canadese visibile anche negli stati degli Usa più vicine al confine, però decide di trasmettere l’incontro in diretta.

Come in molte altre occasioni, gli Usa partono in salita. Vladimir Krutov devia uno “slapshot” di Aleksei Kasatonov e porta l’Urss in vantaggio. Gli americani pareggiano con Buzz Schneider ma i sovietici tornano in vantaggio con Sergei Makarov. Sull’1-2 sale in cattedra Jim Craig, il portiere della nazionale statunitense. Per capire il livello della sua partita basta guardare la statistica dei tiri in porta alla fine del match: Urss 39 – Usa 16.

Nei secondi finali del primo periodo Dave Christian prova uno slapshot dalla lunghissima distanza, Tretiak salva ma la sua respinta è tutto tranne che perfetta. Il puck finisce a una ventina di metri di distanza, in posizione centrale rispetto alla porta. Mark Johnson, figlio dell’allenatore della nazionale del 1976, passa in mezzo a due difensori e pareggia. Manca un solo secondo alla fine del periodo.

I sovietici, che hanno timidamente protestato sostenendo che la rete fosse stata segnata a tempo scaduto, stanno già andando verso gli spogliatoi. Non vogliono tornare indietro per il face off da un secondo. Ma le regole sono le regole. Tikhonov allora manda in campo tre giocatori di movimento più il portiere. E il portiere non è Tretiak, è il secondo Vladimir Myskhin. “Non so perché l’ha fatto” commenta amaramente Tretiak più di vent’anni dopo. “Chiedetelo a Tikhonov. Era lui il coach”.

Non aveva giocato bene nelle partite precedenti” dirà Tikhonov, “e avevo l’impressione che fosse un po’ troppo nervoso”. Come ammetterà anni dopo il coach sovietico, quella mossa è “la svolta della partita, il più grande errore della mia carriera”.

Un errore che, comunque, non si palesa subito. Perché nel secondo periodo i sovietici non concedono gol, gli Usa tirano peraltro solo due volte. Le undici parate di Craig mantengono in partita gli Usa, che concedono solo un gol, per giunta in inferiorità numerica. Con il gol di Alexander Maltsev il secondo periodo si chiude con l’Urss in vantaggio 3-2.

Dopo 6 minuti e 47 secondo del terzo tempo, Vladimir Krutov viene spedito sulla panca della penalità per aver colpito un avversario con il bastone. Con gli Stati Uniti in power play, Myskhin para un tiro di Mike Ramsey poi il capitano Mike Eruzione spedisce fuori. Quando mancano nove secondi allo scadere della superiorità numerica, Dave Silk si avventa sul puck vagante, lo fa passare sotto il pattino del difensore Sergei Starikov e ancora una volta Johnson è l’uomo giusto al posto giusto. Si sono giocati 8 minuti e 39 secondi: Usa e Urss sono di nuovo in parità, 3-3.

Passano 81 secondi e Mark Pavelich trova Mike Eruzione, lasciato inspiegabilmente libero. Eruzione, i cui genitori sono presenti sugli spalti, è l’uomo della provvidenza: Usa 4 – Urss 3 quando mancano 10 minuti alla fine.

Brooks chiede ai suoi concentrazione: “Ho insistito” ha spiegato, “quanto fosse importante restare fedeli alla nostra tattica, al nostro sistema di gioco. Ho visto troppe squadre farsi rimontare dai sovietici. Stavamo diventando ansiosi, gettando via il puck: cominciava ad affiorare la paura, dovevamo calmarci”

Con 8 minuti e 15 ancora da giocare, Craig compie un’altra parata strepitosa, salvando col pattino su un “backhander” (un tiro scagliato con la parte posteriore del bastone) di Vladimir Volikov. Ma non c’è paura, non c’è panico negli ultimi cinque minuti.

La paura di perdere si fa sentire, invece, tra i sovietici, che perdono lucidità. Tikhonov non prova mai la mossa disperata di togliere il portiere Myshkin per un attaccante extra: “non credeva nel sei-contro-cinque” spiegherà Starikov anni dopo. Craig si regala un’altra parata, forse la più importante, con 57 secondi ancora sul cronometro, su Vladimir Petrov.

I secondi scorrono, gli Usa cercano di portare il puck fuori dalla zona blu. Il pubblico scandisce il count-down e Al Michaels l’accompagna con un finale di telecronaca rimasto nella storia: “Undici secondi...dieci...è partito il countdown! Morrow, in avanti per Silk. Cinque secondi ancora da giocare. Credete nei miracoli? SIIII”.




È uno di quei rari e magici momenti olimpici, di quegli eventi più grandi dei vincitori e degli sconfitti. “Il primo sovietico cui ho stretto la mano sorrideva” ha confessato Mark Johnson.

Il 3 marzo 1980 Sports Illustrated esce in edicola con in copertina solo una foto di Heinz Kluetmeier.


Non c’è didascalia, non c’è titolo. Non serviva, commenta Kluetmeier. In America tutti sapevano cos’era successo.

Era successo un miracolo sul ghiaccio.