L’ombelico della
scherma mondiale è un triangolo di case largo non più di 500 metri,
nella parrocchia San Francesco a Jesi. È lo spazio che passa tra le
case di Stefano Cerioni, Giovanna Trillini e Valentina Vezzali. La
pioggia di titoli e di medaglie che si è generata nasce da lontano.
E non è una metafora. Nasce in un campo di prigionia inglese in
Sudafrica: a Zonderwater, che significa senz’acqua.
Lì viene internato Ezio
Triccoli, jesino, richiamato alle armi nel maggio 1940, arruolato nel
26° reggimento di Artiglieria e fatto prigioniero il 10 dicembre a
Sidi El Barrani. Il comandante generale del campo, il colonnello
Hendrik Fredrik Prisloo, unisce alla disciplina un grande rispetto
per i prigionieri, che costruiscono ventidue teatri, edifici in
muratura, trenta chilometri di strade, quindici scuole, e vengono
stimolati a dedicarsi allo sport. Nel campo vengono organizzati
incontri di pugilato, un campionato di calcio, gare di ciclismo, di
atletica, e di scherma.
Triccoli è un uomo
istintivo, che si fabbrica da solo fioretti, spade e maschere
protettive e riesce a portarle in Italia in una valigia costruita con
i barattoli vuoti di marmellata. Ha sperimentato posizioni
rivoluzionarie, come la foettata, la frustata con il fioretto sulla
spalla dell’avversario: con questo colpo Cerioni, oggi tecnico
della nazionale, che ha iniziato a otto anni perché sua nonna
Palmira era amica di Triccoli, avrebbe vinto l’oro olimpico a
Seoul.
Nel gennaio 1945 viene
nominato istruttore ad honorem del Nucleo Schermistico Nedo Nadi dei
Campi 9 e 10. Pochi giorni dopo scrive una lettera al fratello Elvio,
mai consegnata, e per un caso del destino ritrovata da una sua
parente su una bancarella di Ancona nel 2001. “Mi raccomando di
rimanere sempre in gamba e sveglio, di essere sempre combattivo nella
vita e di non farti sopraffare: solo così si può sperare di
riuscire”.
Consigli che ha
trasferito a tutti gli allievi passati per la sua palestra, per il
Gruppo schermistico di Jesi, aperto nel 1947.Un gruppo che diventa
l’ombelico del mondo grazie alla figlia di una sua nipote che
arriva in palestra per rimettere a posto una spalla rotta: Giovanna
Trillini.
È con lei che inizia la
stagione magica del fioretto femminile. A Barcellona ‘92 Giovanna
arriva dopo una delicata operazione al ginocchio e si presenta con un
tutore cui ha dato anche un soprannome, “Don Joy”. “Sì , Don
Joy e’… il mio amico del cuore!” ha raccontato a Cesare Fiumi
del Corriere della Sera la sera della finale individuale vinta sulla
cinese Wang. “E' il nome del tutore che parte dalla coscia e arriva
fino al polpaccio. Le due rotelline mi tengono stretto il legamento
crociato del ginocchio. Don Joy lo sostituisce benissimo. Pesa 300
grammi, a volte capita di toglierselo e buttarlo via con rabbia. Ne
avverti il disagio. E lui, come tutti i buoni amici, non protesta”
Ha paura, Giovanna.
“Avevo disputato solo due gare dopo il rientro e mi ero sempre
fermata all' eliminazione diretta. Alla fine ero stanchissima. Ma
prima dell' ultima stoccata, dopo 18 ore in pedana, mi è sembrato
di ritrovare di colpo tutte le forze. Avevo tirato maluccio nei primi
turni anche al mondiale di Budapest. Per questo non ero preoccupata.
Certo, quando la Wang mi ha raggiunto sul tre a tre, a sette secondi
dalla fine la sensazione non è stata piacevole. Guardavo il maestro
Tomassini, e i segni di Stefano Cerioni. Sapevo che dovevo stare
calma”.
A questo punto non ci
resta che rivederla, quella splendida finale.
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