Fabrizio Mori |
lunedì 29 agosto 2011
Fabrizio Mori, un cuore oltre gli ostacoli
venerdì 26 agosto 2011
1999: il viaggio di Azzurra
Il primo trionfo lascio che sia Sfide a raccontarlo.
La nostra macchina del tempo si ferma ad Antibes. È il 21 giugno 1999. Il viaggio di Azzurra all’ultimo Europeo del millennio comincia qui.
martedì 9 agosto 2011
Donato Bergamini, il calciatore suicidato
lunedì 1 agosto 2011
We are Genoa: 1992, la conquista di Anfield
giovedì 28 luglio 2011
La seconda scoperta dell'America
“Da noi si dice che un uruguaiano a cui non piace il fútbol non è un vero uruguaiano” scrive Osvaldo Heber Lorenzo, uno dei giornalisti sportivi più noti del Paese. Il calcio è nel dna degli uruguayani, come dimostra la storia della famiglia di Diego Forlan: il nonno Juan Corazzo ha alzato la Copa America, il padre Pablo ha alzato la Copa America, Cachavacha ha alzato la Copa America. Una coppa speciale, la numero 15, che fa dell’Uruguay la nazionale più titolata del continente, più del Brasile, più dell’Argentina. Ma questa non è la storia della famiglia Forlan. È la storia di come tutto ebbe inizio. La genesi di un movimento che ha il calcio nel sangue.
martedì 26 luglio 2011
Italia-Spagna: epica e magia a Barcellona
lunedì 18 luglio 2011
Alla partita come alla guerra
venerdì 15 luglio 2011
Hornets, this is your song
Nel 1977 il primo tifoso del Watford diventa presidente della squadra dei suoi sogni. Non è un presidente qualunque, perché non è un tifoso qualunque: è Elton John. La sua prima mossa è scegliere come allenatore Graham Taylor, che a 27 anni era diventato il più giovane coach con patentino della FA, e gli offre un contratto quinquennale. Il Watford langueva in quarta divisione, era stato al massimo in seconda serie per tre anni. Taylor gli chiede: dove vuole che arriviamo nei prossimi cinque anni? Risposta: voglio vedere il Watford in Europa.
Negli anni Settanta, Taylor è l’allenatore più radicale di tutta Gran Bretagna: propone una versione evoluta del “kick and rush”, calcia e corri. Come hanno già dimostrato in passato Stan Cullis e una serie di manager a partire da Herbert Chapman, è impossibile per una squadra arrivare al successo se tutto quello che i giocatori fanno è lanciare la palla in avanti senza senso. “Quando un passaggio lungo diventa una palla lunga” si chiede Chapman.
“Il nostro stile era basato sul pressing. Così, anche se il terzino destro era in possesso del pallone nella sua metà campo, noi andavamo a pressarlo. Giocavamo un calcio ad alto ritmo, perciò dovevamo essere in perfetta condizione fisica. Quando il punteggio è sullo 0-0 con tre o quattro minuti da giocare, i giocatori che fanno? Lanciano la palla in avanti e i giocatori cercano il pallone. Ma allora perché non farlo dai primi minuti, se i giocatori sono in perfetta forma?”.
Matura la sua concezione del pressing grazie ad alcuni articoli pubblicati sulla rivista della FA su Viktor Maslov, lo storico allenatore della Dinamo Kiev degli anni Sessanta, precursore della scientificità di Valerij Lobanovskij e del calcio totale olandese. Arriva alla Dinamo Kiev nel 1964, quando in Unione Sovietica, dopo il successo della nazionale agli Europei di quattro anni prima, dominava il 4-2-4. Maslov studia il Brasile del 1958 e riconosce l’importanza di far arretrare uno degli attaccanti per creare un centrocampo a tre, se necessario. E spinge l’idea ancora più in là, introducendo il 4-4-2 anni prima di quello che da molti è considerato il pioniere di questo modulo, Sir Alf Ramsey.
Con la Dinamo vince tre scudetti di fila, nel 1966, 67 e 68 e la coppa nazionale nel 1966: in sostanza, sposta da Mosca a Kiev la capitale del calcio sovietico. Il modulo, comunque, non è l’unica rivoluzione che porta la sua firma. “La marcatura a uomo umilia, insulta, opprime moralmente chi vi ricorre” ha sempre sostenuto. Maslov è l’uomo che inventa la zona. Pone un enfasi crescente sull’organizzazione totale in ogni zona del campo, in fase di possesso e di non possesso, nega libertà di movimento agli avversari con il brillante posizionamento degli uomini, costruisce la manovra prendendo l’iniziativa in zone inattese del campo.
È anche il primo allenatore a porre grande attenzione alla preparazione fisica e alla nutrizione dei giocatori, perché un tale stile di gioco richiede una forma fisica perfetta per essere efficace. Esattamente come il “kick and rush” evoluto professato da Graham Taylor.
Alla prima stagione, il suo Watford domina la Fourth Division, che vince con 71 punti, 11 in più della seconda, il Southend United. È il record assoluto per la divisione, a tre dal primato in Football League fatto registrare dal Lincoln City, allenato sempre da Taylor, nel 1975-76. Quell’anno segna una serie di altri primati per la storia del club: maggior numero di vittorie sia totali (30) che in casa (18) che in trasferta (12) e maggior numero di gol segnati fuori casa (42).
In questa prima stagione della gestione Watford, Taylor acquista Ian Bolton, il centrocampista su cui costruirà le sue fortune e che diventerà capitano degli Hornets. “Quando sono arrivato al Watford” ha spiegato in un’intervista, “Graham Taylor portava con sé un grande libro di tattiche. Il concetto base era che se la palla era nella metà campo avversaria, loro non potevano segnare ma noi sì. Taylor guardava quanti tiri e quanti cross riuscivamo a fare, perché se non attacchi non tiri e se non tiri non segni”. Bolton si è subito ambientato in questo “gruppo di giocatori che avevano qualcosa da dimostrare, un po’ come la sporca dozzina”. Taylor, che lo considerava superiore a Glenn Hoddle, l’ha impiegato in diverse posizioni ma lui preferiva giocare da numero 6, da difensore.
Taylor fa anche un’altra mossa coraggiosa, che avrà un impatto notevole nel futuro della squadra: promuove dalle giovanili Luther Blissett.
E' stato un compagno di squadra, Paul Kitson, a portarlo a una sessione d’allenamenti per giovani promesse organizzata dal club. Dopo due settimane, Blissett partecipa a un test amichevole, contro l’U-17 del Southend. Il Watford vince 3-1 e lui segna due gol: con gli Hornets è amore a prima vista.
“Quello che Taylor ha portato” ha detto Blissett in un’intervista, “era un pensiero semplice: giocare in base alle nostre forze. E la forza della nostra squadra erano gli attaccanti e le ali. Perciò quello che la squadra cercava di fare era portare il pallone in zone da cui potevamo segnare. Ogni nostra partita era eccitante da guardare e da giocare perché giocavamo sempre per vincere. Contro di noi i difensori dovevano sempre essere concentrati al massimo e spesso non ci riuscivano. In più, non sempre capivano quello che avremmo cercato di fare e dunque non sapevano esattamente cosa fare per fermarci”. Blissett diventerà il giocatore con più presenze e più gol segnati nella storia del club. Ma Blissett, che segna 95 gol in 245 partite al Watford, ne sbaglia almeno altrettanti e si guadagna il soprannome di “Miss it” (Sbaglialo) che lo accompagnerà, per di più senza la stessa vena realizzativa, nella parentesi al Milan.
Nella stagione successiva il Watford si ripete. Grazie alla perfetta organizzazione di gioco e ai gol di Ross Jenkins, capocannoniere con 29 reti, gli Hornets ottengono la seconda promozione consecutiva. Chiudono la stagione al secondo posto con 60 punti, a una lunghezza dalla capolista, lo Shrewsbury Town, e una di vantaggio dalla quarta, il Gillingham.
Il tris immediato non riesce. La prima stagione di Second Division si conclude con una salvezza tranquilla, con sette punti di vantaggio sul Fulham, la prima retrocessa. Il dichiarato obiettivo di arrivare in First Division non riesce nemmeno l’anno successivo. Il Watford gioca bene ma non va oltre il nono posto, a 43 punti, sette in meno dello Swansea, che chiude terzo e aggancia l’ultimo posto utile per la promozione. È l’anno del West Ham, che ha vinto l’FA Cup del 1980 contro il Liverpool e torna in massima serie spinto dai 22 gol di David Cross.
Ma alla terza stagione consecutiva in Second Division i Calabroni volano nell’élite del calcio inglese. Vincono 23 partite su 42, chiudono secondi con 80 punti grazie ai 25 gol di Blissett, al genio di John Barnes e alla velocità di Nigel Callaghan.
Il 4-4-2 è il modulo principe, anche se in alcune occasioni poteva ricordare più il 4-2-4 del Brasile 1958 e nella prima stagione in First Division in qualche match Taylor ha giocato col 3-4-3. Una squadra così offensiva crea problemi ai centrocampisti offensivi avversari: seguire terzini e ali arretrando o lasciarli liberi?
Al debutto in First Division il Watford vince 2-0 contro l’Everton. Alla seconda, arriva anche la prima vittoria in trasferta, 4-1 sul campo del Southampton. Contro i Saints era arrivata la famosa rimonta in Coppa di Lega nel 1980 con gli Hornets capaci di passare il turno vincendo 7-1 in casa dopo aver perso 4-0 all’andata. Con Elton John in tribuna, il Watford domina la scena. Nigel Callaghan segna una doppietta e serve l’assist a Gerry Armstrong prima della rete definitiva segnata di testa da Jenkins. Per Peter Shilton, al debutto casalingo con la maglia dei Saints, è un giorno da dimenticare.
Alla quinta giornata, il 12 settembre, arriva il quarto successo nelle prime cinque giornate: 3-0 al West Bromwich, con doppietta di Blissett e gol di Les Taylor. Il 3-3 tra Luton e Liverpool porta il Watford in testa alla classifica grazie alla miglior differenza reti rispetto a Manchester City e Manchester United.
Il 25 settembre 1982 è una data che i tifosi degli Hornets non dimenticano facilmente. Il Watford batte il Sunderland 8-0: è la vittoria più larga nella storia del club, che arriva nella settima partita della sua storia in First Division. Eppure il Sunderland all’epoca non è una squadra così debole, può vantare giocatori come Barry Venison, Ally McCoist e Jimmy Nichol e sfiora il gol in avvio. Ma il Watford è inarrestabile. Segna quattro gol per tempo in quello che rimarrà come il giorno più bello per Luther Blissett. Due settimane prima un gol annullato per fuorigioco gli aveva impedito di festeggiare la prima tripletta in First Division. Ne segna 4 al Sunderland, annichilito anche dalle doppiette di Jenkins e Callaghan.
L’isteria mediatica intorno al Watford e al loro modo di giocare snobbato dalla stampa inizia davvero a novembre, dopo l’1-0 al White Hart Lane. La prima trasferta in campionato sul campo del Tottenham coincide con il ritorno di Glenn Hoddle nel centrocampo degli Spurs dopo un infortunio. I padroni di casa cercano riscatto dopo essere usciti al secondo turno in Coppa delle Coppe dopo l’1-4 contro il Bayern nella nebbiosa notte di Monaco.
Gli Hornets, sesti in classifica alla vigilia del match, sono spinti dalla passione di 9 mila tifosi. Gli Spurs soffrono a centrocampo, Hoddle è sovrastato dall’energia di Kenny Jackett e del match-winner Les Taylor. Bolton, schierato in difesa, è sontuoso e non concede quasi nessuna punizione in posizione pericolosa pur dovendo fronteggiare due attaccanti di livello come Crooks e Archibald. Sulle fasce gli Hornets dominano e conquistano ben 19 calci d’angolo.
Gli Spurs, anziché sfruttare le loro maggiori qualità di palleggio non fanno altro che lanciare lungo per le punte che però si aspettano di ricevere il pallone tra i piedi. Ma qualche buona occasione arriva. Sherwood, il portiere ospite, salva su Crooks e Hoddle nel primo tempo e due volte su Archibald nel secondo. Si gioca a un ritmo altissimo.
E nell’ultimo quarto di gara la pressione ospite si fa ancora più forte. Clemence nega il gol a Blissett, Barnes e Callaghan. Poi, su una rimessa lunga di Blissett, Jenkins evita due avversari e tira, Clemence respinge ma Taylor è più veloce di tutti e fa esplodere lo spicchio di tifosi ospiti.
La vittoria finale è accompagnata, però, da un coro di critiche. Taylor e Jackett sono accusati di tackle irrispettosi su Hoddle. Burkinshaw, manager del Tottenham, dichiara: “Io non giocherò mai come loro”.
Passano venti giorni e il Watford si ripete dando un altro “colpo” ai puristi: si impone 4-2 ad Highbury sull’Arsenal di Don Howe. Come la stampa commenterà il giorno dopo, il Watford ha fatto di tutto per vincere, le stelle dei Gunners invece hanno aspettato che le cose succedessero. Nel primo tempo l’Arsenal si vede annullare un gol probabilmente buono (su un calcio di punizione Rostron va a sbattere contro Sherwood e permette a Sunderkand di segnare a porta vuota, ma l’arbitro non concede il gol vedendo una spinta di O’Leary su Rostron). Il Watford ci prova con Barnes, che di testa mette alto, ma al 39’ l’Arsenal passa in vantaggio. Rostron batte una rimessa laterale, Jacket si fa rubare palla da Talbot che taglia il campo con un passaggio di 30 metri verso Tony Woodcock bravo a far filtrare verso Robson che di prima, dal limite, batte Sherwood. Il vantaggio dura tre minuti. Rinvio di Sherwood, sponda di Jenkins, la difesa dell’Arsenal non è preparata ad essere messa così presto sotto pressione, Blissett raccoglie e vede l’inserimento di Barnes che conclude e pareggia anche grazie alla deviazione di White. Wood è battuto: 1-1.
Quando sono trascorsi quattro minuti dall’inizio della ripresa Jackett conclude dalla distanza, la palla sta per finire fuori ma sbatte sulla gamba di Blissett: 2-1 Watford. Sherwood sale in cattedra: splendido il salvataggio per alzare sulla traversa il tiro di Robson, poi si ripete su Sunderland e sullo stesso Robson. Ma in contropiede il Watford è implacabile. Rice apre per Callaghan che di prima vede il movimento di Jenkins in area; il portiere Wood esce e lo anticipa, ma sul pallone arriva Barnes che lo scavalca con un pallonetto e segna a porta vuota.
I Gunners non ci stanno e al 74’ accorciano. Cross di Davis, Talbot si inserisce alle spalle della difesa e gira tra le gambe di Sherwood. L’Arsenal insiste, si gioca senza un attimo di tregua. Ma l’ultimo gol è ancora del Watford. Blissett anticipa O’Shea e allarga per Barnes, il suo diagonale viene deviato da Robson che, per anticipare Jenkins, scavalca Wood. Autorete e partita finita. “Da quanto tempo” si chiederà Taylor a fine partita, “i tifosi non vedevano sei gol ad Highbury?”. Almeno dagli anni Cinqunta.
Dicembre, però, non è un gran mese per gli Hornets che chiudono l’anno solare 1982 al sesto posto. Gennaio si apre con il pareggio a Brighton e la vittoria sil Manchester City. A febbraio gli Hornets vincono a Swansea, che hanno impiegato un anno meno del Watford a passare dalla Division 3 alla Division 2. Nel 1979 John Toshack, dopo un pareggio a Vicarage Road, disse: “Dovremmo battere squadre così”. Per i tifosi dei Calabroni vincere in Galles ha il sapore dolce della vendetta.
Ma a febbraio arriva soprattutto il successo interno sull’Aston Villa, i campioni d’Europa in carica che avrebbero affrontato la Juventus in Coppa Campioni il successivo mercoledì. I Villans sono quinti in classifica, gli Hornets secondi dietro il Liverpool. Si gioca su un campo zuppo, la pioggia non ha risparmiato la città nelle 24 ore precedenti. Solo una settimana prima, l’Aston Villa aveva eliminato i Calabroni dall’FA Cup. Ma al Vicarage Road il match è dominato dal Watford. Blissett firma il vantaggio con una conclusione dal limite. Ma Walters pareggia con un pallonetto da fuori area approfittando di uno dei rari errori di Bolton.
Al 90’ il punteggio è fermo sull’1-1. Wilf Rostron tenta una conclusione disperata, ma la palla scheggia il palo ed esce. Rinvio del portiere, che colpisce male. La palla si impantana nel fango a circa 25 metri dalla porta. Rotola verso Rostron che senza pensarci tira. È un gol spettacolare. Il portiere avversario Nigel Spink non ha la minima chance di arrivarci. Davanti agli occhi di Elton John arriva una delle vittorie più memorabili di una stagione incredibile. In primavera il Watford continua a dare spettacolo in casa: 5-2 al Luton, 5-3 al Notts County, ma balbetta in trasferta.
Il 19 aprile il Liverpool si laurea matematicamente campione d’Inghilterra, ma gli Hornets possono ancora inseguire l’Europa. E l’Europa arriva. All’ultima giornata il Watford affronta in casa i neo-campioni allenati da Bob Paisley, il manager di maggior successo nella storia del campionato inglese, che in nove anni ad Anfield ha vinto sei scudetti, tre Coppe dei Campioni una Coppa Uefa e tre Coppe di Lega. Ma l’ultimo titolo è arrivato prestissimo, con sette giornate d’anticipo. Nelle successive sei partite prima della trasferta conclusiva a Vicarage Road, i Reds hanno ottenuto due pareggi e quattro sconfitte.
Dopo 49 minuti il Watford è avanti 2-0. Blissett, già pericoloso con un colpo di testa che Grobbelaar devia in angolo, firma l’assist per il vantaggio. Ed è straordinario che a firmarlo sia Martin Patching. I legamenti del ginocchio destro del 24enne difensore si sono rotti in maniera così grave che i dottori gli hanno detto che in un solo caso, un rugbysta dilettante, il recupero è stato talmente positivo da consentire un ritorno all’attività sportiva. Patching chiede la compensazione alla Lega e compra un pub a Potten End, un villaggio dell’Hertfordshire. Ma Taylor lo convince a non lasciare il calcio: così Patching può mettere anche il suo sigillo su una stagione da leggenda.
Il secondo gol è abbastanza fortunoso. Franklin, alla prima presenza stagionale, lancia verso Barnes che mette in mezzo per Blissett, solo contro tre avversari. In qualche modo, però, il caraibico riesce a far carambolare il pallone alle spalle di Grobbelaar.
Il gol di Johnston, di testa, non adombra la festa. Il Watford chiude al secondo posto, in quello che è ancora oggi il miglior piazzamento di sempre della squadra. Elton John e Graham Taylor hanno mantenuto la promessa. In cinque anni, i Calabroni sono volati in Europa.
giovedì 14 luglio 2011
Miracle on ice
Olimpiadi invernali del 1980, Lake Placid. Gli Usa vincono la medaglia d'oro battendo nel secondo, e decisivo, incontro del gruppo delle medaglie la Finlandia. Ma la partita che tutti ricordano è la prima del gironcino finale, che possiamo considerare come la semifinale. Stati Uniti contro Unione Sovietica.
“Siete nati per essere giocatori. Il vostro destino è essere qui in questo momento. Il vostro destino è giocare questa partita”. La partita è Usa-Urss, semifinale di hockey su ghiaccio alle Olimpiadi del 1980 a Lake Placid. A parlare è Herb Brooks, coach della nazionale statunitense. Ancora non sa che il destino dei suoi ragazzi non è giocare ma vincere quella semifinale e convincere una nazione che, qualche volta, i miracoli possono accadere.
Le nazionali
Gli Usa sono l’ultima nazionale ad aver battuto l’Unione Sovietica alle Olimpiadi: è successo nel 1960. In quella nazionale avrebbe potuto esserci anche Herb Brooks, ma non ha superato l’ultimo taglio prima della convocazione della rosa definitiva. Nelle successive quattro edizioni, i sovietici hanno registrato 27 vittorie, un pareggio, una sconfitta. In quella nazionale giocavano l’ala destra Boris Mikhailov, Vladislav Tretiak, considerato all’epoca il miglior portiere del mondo, il talentuoso Valeri Kharlamov e il difensore Viacheslav Fetisov. Questi ultimi tre entreranno nella Hall of Fame.
La nazionale a stelle e strisce era invece composta da giocatori di livello universitario, con un’età media di 22 anni. Solo Buzz Schneider aveva fatto parte della spedizione ai Giochi di Montreal, quattro anni prima. Brooks pesca nelle due aree di maggiore diffusione dell’hockey: il New England, soprattutto Boston, e le regioni fredde del Midwest, Minnesota e Wisconsin. Alla fine, dei 20 selezionati, nove provengono dall’Università del Minnesota, 13 da Boston.
A settembre iniziano una serie di 61 amichevoli in cinque mesi. L’ultima, il 9 febbraio 1980, tre giorni prima della cerimonia d’apertura, al Madison Square Garden, contro l’Unione Sovietica. L’Urss vince 10-3. Per il coach sovietico Viktor Tikhonov quell’amichevole si rivelerà un boomerang perché i suoi ragazzi sottovaluteranno gli Usa in semifinale.
In quei sei mesi Herb Brooks, da St.Paul, Minnesota, fa molto di più che costruire una squadra. All’epoca allenava la squadra dell’Università del Minnesota con cui aveva vinto tre titoli negli anni Settanta. In quei sei mesi cancella i dubbi del Comitato Olimpico, scettico sulla sua nomina di allenatore della nazionale olimpica, e trasforma quel gruppo di studenti nell’immagine del capitalismo, dell’American way of life applicata all’hockey: competizione, esuberanza, gioventù.
Iniziano le Olimpiadi
Gli Usa, settima testa di serie tra le dodici nazionali, sorprende per il suo gioco fisico e la coesione di squadra. Nel match d’esordio, contro la Svezia, tra le favorite per la vittoria finale, riescono a pareggiare 2-2 segnando il gol decisivo a 27 secondi dalla fine grazie alla mossa di Brooks che toglie il portiere Jim Craig per aggiungere un attaccante.
La nazionale a stelle e strisce vince le successive quattro partite. Prima del secondo incontro, Dave Christian in spogliatoio modella un paio di ali e una coda da un cartone di Budweiser e se le attacca al casco. Gli Usa volano e battono 7-3 la Cecoslovacchia. Nel match successivo, gli Usa chiudono il primo periodo in svantaggio 0-1 contro la Norvegia. Dave Silk, nell’intervallo, chiede maggior supporto tra i compagni di squadra e chiede a ognuno di dire solo cose positive agli altri. “Eravamo giovani e immaturi” commenta Mike Eruzione. Ma la tattica funziona e gli Usa vincono 5-1, poi sconfiggono 7-2 la Romania e 4-2 la Germania Ovest.
Nell’altro girone i sovietici hanno vita facile. Battono 16-0 il Giappone, 17-4 l’Olanda, 8-1 la Polonia, 4-2 la Finlandia e 6-4 il Canada. Al girone per le medaglie arrivano Usa e Svezia dal gruppo A, Urss e Finlandia (che dopo aver perso con la Polonia il primo incontro riesce a sorprendere il Canada) dal gruppo B.
Tikhonov prepara il girone tenendo i giocatori a riposo, facendo loro studiare schemi e strategie. Brooks porta i suoi sul campo, li fa pattinare, mette il gruppo del Minnesota contro quelli di Boston, li sprona come un generale dei marines farebbe con le ultime reclute arrivate in un film di guerra. Celebre una sua frase: “giocate sempre peggio ogni giorno. Adesso state giocando come alla metà del mese prossimo”.
La sua è una forma certo singolare di motivazione. Il suo obiettivo è spingere alla coesione perché, dice ai suoi, “non avete abbastanza talento per vincere solo grazie al talento”. Per questo “non potete essere normali, perché l’uomo comune non va da nessuna parte. Dovete essere speciali”.
Dave Anderson, del New York Times, scrive: “A meno che il ghiaccio non si sciolga o avvenga un miracolo come negli anni Sessanta, i sovietici stanno per conquistare agevolmente la sesta medaglia d’oro nelle ultime sette Olimpiadi”. Il ghiaccio non si scioglierà, ma l’Urss non salirà sul gradino più alto del podio.
Credete nei miracoli?
Gli 8,500 posti della Field House sono stracolmi di bandiere e di tifosi che cantano God Bless America. Ma gli altri americani, quelli che non fanno parte degli 8.500 fortunati, non possono guardare la partita nemmeno in tv. Il match è in programma alle 17. Gli Usa hanno chiesto ai sovietici se fossero d’accordo a spostarla alle 20, ma la proposta è stata declinata perché, per i telespettatori sovietici avrebbe significato un fischio d’inizio alle 4 di mattina.
Perciò la ABC decide di non trasmetterlo in diretta, ma solo in differita registrata in prime time. Telecronista dell’incontro è Al Michaels, che commenta insieme all’ex portiere dei Montreal Canadiens Ken Dryden, che solo il giorno prima ha sostenuto a Toronto il “bar exam”, un esame periodico previsto, in alcune giurisdizioni, per l’esercizio della professione forense.
Michaels è stato scelto perché è l’unico, tra i telecronisti sportivi della ABC, che avesse mai commentato un match di hockey. Ma proprio uno di numero: la finale del torneo olimpico del 1972 tra Urss e Cecoslovacchia (vinto dai sovietici 5-2). E allora era stato selezionato perché da ragazzo era stato appassionato di hockey e perché, semplicemente, nessun altro voleva commentare il match.
La CTV, la televisione canadese visibile anche negli stati degli Usa più vicine al confine, però decide di trasmettere l’incontro in diretta.
Come in molte altre occasioni, gli Usa partono in salita. Vladimir Krutov devia uno “slapshot” di Aleksei Kasatonov e porta l’Urss in vantaggio. Gli americani pareggiano con Buzz Schneider ma i sovietici tornano in vantaggio con Sergei Makarov. Sull’1-2 sale in cattedra Jim Craig, il portiere della nazionale statunitense. Per capire il livello della sua partita basta guardare la statistica dei tiri in porta alla fine del match: Urss 39 – Usa 16.
Nei secondi finali del primo periodo Dave Christian prova uno slapshot dalla lunghissima distanza, Tretiak salva ma la sua respinta è tutto tranne che perfetta. Il puck finisce a una ventina di metri di distanza, in posizione centrale rispetto alla porta. Mark Johnson, figlio dell’allenatore della nazionale del 1976, passa in mezzo a due difensori e pareggia. Manca un solo secondo alla fine del periodo.
I sovietici, che hanno timidamente protestato sostenendo che la rete fosse stata segnata a tempo scaduto, stanno già andando verso gli spogliatoi. Non vogliono tornare indietro per il face off da un secondo. Ma le regole sono le regole. Tikhonov allora manda in campo tre giocatori di movimento più il portiere. E il portiere non è Tretiak, è il secondo Vladimir Myskhin. “Non so perché l’ha fatto” commenta amaramente Tretiak più di vent’anni dopo. “Chiedetelo a Tikhonov. Era lui il coach”.
“Non aveva giocato bene nelle partite precedenti” dirà Tikhonov, “e avevo l’impressione che fosse un po’ troppo nervoso”. Come ammetterà anni dopo il coach sovietico, quella mossa è “la svolta della partita, il più grande errore della mia carriera”.
Un errore che, comunque, non si palesa subito. Perché nel secondo periodo i sovietici non concedono gol, gli Usa tirano peraltro solo due volte. Le undici parate di Craig mantengono in partita gli Usa, che concedono solo un gol, per giunta in inferiorità numerica. Con il gol di Alexander Maltsev il secondo periodo si chiude con l’Urss in vantaggio 3-2.
Dopo 6 minuti e 47 secondo del terzo tempo, Vladimir Krutov viene spedito sulla panca della penalità per aver colpito un avversario con il bastone. Con gli Stati Uniti in power play, Myskhin para un tiro di Mike Ramsey poi il capitano Mike Eruzione spedisce fuori. Quando mancano nove secondi allo scadere della superiorità numerica, Dave Silk si avventa sul puck vagante, lo fa passare sotto il pattino del difensore Sergei Starikov e ancora una volta Johnson è l’uomo giusto al posto giusto. Si sono giocati 8 minuti e 39 secondi: Usa e Urss sono di nuovo in parità, 3-3.
Passano 81 secondi e Mark Pavelich trova Mike Eruzione, lasciato inspiegabilmente libero. Eruzione, i cui genitori sono presenti sugli spalti, è l’uomo della provvidenza: Usa 4 – Urss 3 quando mancano 10 minuti alla fine.
Brooks chiede ai suoi concentrazione: “Ho insistito” ha spiegato, “quanto fosse importante restare fedeli alla nostra tattica, al nostro sistema di gioco. Ho visto troppe squadre farsi rimontare dai sovietici. Stavamo diventando ansiosi, gettando via il puck: cominciava ad affiorare la paura, dovevamo calmarci”
Con 8 minuti e 15 ancora da giocare, Craig compie un’altra parata strepitosa, salvando col pattino su un “backhander” (un tiro scagliato con la parte posteriore del bastone) di Vladimir Volikov. Ma non c’è paura, non c’è panico negli ultimi cinque minuti.
La paura di perdere si fa sentire, invece, tra i sovietici, che perdono lucidità. Tikhonov non prova mai la mossa disperata di togliere il portiere Myshkin per un attaccante extra: “non credeva nel sei-contro-cinque” spiegherà Starikov anni dopo. Craig si regala un’altra parata, forse la più importante, con 57 secondi ancora sul cronometro, su Vladimir Petrov.
I secondi scorrono, gli Usa cercano di portare il puck fuori dalla zona blu. Il pubblico scandisce il count-down e Al Michaels l’accompagna con un finale di telecronaca rimasto nella storia: “Undici secondi...dieci...è partito il countdown! Morrow, in avanti per Silk. Cinque secondi ancora da giocare. Credete nei miracoli? SIIII”.
È uno di quei rari e magici momenti olimpici, di quegli eventi più grandi dei vincitori e degli sconfitti. “Il primo sovietico cui ho stretto la mano sorrideva” ha confessato Mark Johnson.
Il 3 marzo 1980 Sports Illustrated esce in edicola con in copertina solo una foto di Heinz Kluetmeier.
Era successo un miracolo sul ghiaccio.